giovedì 12 gennaio 2012

Ho trovato questo articolo, interessante, su Repubblica.

Non scrivo commenti ma sono molto interessato a quello che pensate.

RAFFAELE SIMONE

Due spettri s´aggirano per le scuole italiane: la lavagna interattiva e il tablet. Il primo è un apparecchio del tipo dell´iPad, che si collega in rete e permette di leggere, ascoltare, vedere, scrivere, calcolare più o meno come un computer, con la differenza che pesa solo qualche centinaio di grammi. La lavagna interattiva è un grande display che sembra una lavagna: ci si scrive con una penna speciale o col dito e quel che si scrive si può salvare, modificare, spedire… Da un po´ di tempo qualcuno ha stabilito che sono il futuro della scuola: nessuno sa di preciso chi abbia preso questa decisione ma sta di fatto che, appena un ministro s´installa, dichiara che i due gadget sono indispensabili. Il ministro Profumo non fa eccezione: quando, appena arrivato, ha scoperto (dati Istat 2009) che a scuola (non a casa) i ragazzi che usano il computer sono solo il 4%, ha annunciato che, per rendere la scuola italiana più "moderna e visionaria", punta sulla diffusione di lavagna interattiva e tablet.
Quanto alla lavagna interattiva, basta vederla in funzione per capire che è un gadget inutile e fragilissimo. Il suo lavoro non è molto diverso da quello di una lavagna normale, quasi solo con la differenza che si può registrare quel che si è scritto. Il tablet è più insidioso: date le sue maggiori possibilità di uso (contiene libri elettronici e può operare come blocco per appunti, terminale telematico, strumento di precisione e altro), ha un appeal a cui è difficile resistere. Inoltre, siccome è "connesso", spinge facilmente a credere che apra finestre su un mondo illimitato.
Ma è davvero così? A parte l´entità dell´investimento necessario per realizzare il proposito del ministro, il dibattito internazionale su questi temi è molto vivo. Più di un analista dubita della reale utilità di queste risorse nella scuola: a Clifford Stoll (autore qualche anno fa del durissimo saggio Confessioni di un eretico highà-tech; Garzanti) s´è affiancato quest´anno Nicholas Carr con un libro (in Italia da Raffaello Cortina) dal titolo eloquente: Internet rende stupidi? (La sua ovvia risposta è: "Sì, e non poco".) Altri argomenti ho portato io stesso in La Terza Fase.
In ritardo su tutti gli aspetti della modernità, la nostra scuola ha sempre mostrato la più candida accoglienza verso mode (tutte, inutile dirlo, di origine statunitense) che si sono esaurite in un batter d´occhi. A ricordarne alcune si entra nella più plumbea archeologia culturale. Negli anni Settanta subimmo l´inondazione del mito del test e della misurazione "oggettiva" delle prestazioni dei ragazzi; poi fu la volta degli "obiettivi didattici", mediocre dottrina che costrinse per anni gli insegnanti a indicare ossessivamente gli "obiettivi" (scelti entro liste prestabilite) a cui la loro attività doveva puntare; infine la folle sbronza di "istruzione programmata": in attesa dei computer (allora rarissimi) si progettavano noiosi fascicoli che ne scimmiottavano la logica. Ognuna di quelle ondate generò corsi di aggiornamento, investimenti e carta straccia, senza dire del subbuglio che produsse nei professionisti e le famiglie. L´apertura senza riserve a tablet e lavagne interattive (qualcuno studia anche le applicazioni educative del telefonino…) corre il rischio di essere un nuovo capitolo di questa storia di sudditanza.
La cultura digitale è di certo un fenomeno più importante delle mode precedenti. Ma, se non ci si può opporre alle innovazioni epocali, non è inevitabile accettarle senza sapere che cosa si sta facendo. Anche qui tra l´altro la nostra scuola arriva in ritardo: mancata (negli anni Ottanta) la fase iniziale dei pc, ignorato (negli anni Novanta) l´avvento della rete, ora cerca di acchiappare la pantera per la coda introducendo tablet a tappeto. Ma prima di fare una mossa simile è cruciale domandarsi che cosa comporta l´introduzione massiccia della cultura digitale nella scuola. Risorsa formidabile in alcuni impieghi ma pericolosa in altri, è una potenzialità ambivalente che richiede in ogni caso un governo e una gestione fermi e consapevoli. Basta menzionare un rischio tipico: la cultura digitale è uno dei più temibili moventi di interruzione della concentrazione che si siano mai presentati nella storia, e si sa quanto la concentrazione sia cruciale nell´apprendimento.
L´entusiasmo di un ministro o di qualche dirigente scolastico (che trova magari esaltante il fatto che i tablet liberino i ragazzi del pesante zaino) è una motivazione ancora troppo tenue per giustificare una tardiva e radicale digitalizzazione della scuola.

4 commenti:

  1. La cultura digitale è di certo un fenomeno più importante delle mode.
    Partiamo da questa frase; io aggiungerei richiede tempo,tempo vissuto,tempo pensato, tempo per sperimentare.
    La LIM inverte davvero la relazione fra tecnologia, comunicazione e didattica? Ma soprattutto gli insegnanti ne sono consapevoli?

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  2. A me di solito i "dibattiti" irritano, e ancor più la grandissima proprensione che abbiamo noi italiani, al dibattito.

    Mi irritano perché spostano il fuoco dalla realtà, che può essere conosciuta in un modo solo: vivendola. E così proliferano gli "esperti" che sparano sentenze qua e là, pensando di avere conosciuto le cose leggendone qua e là, avendo confuso la conoscenza del mondo letta con quella vissuta.

    Mi irritano perché indulgono in grandi ragionamenti sul bene e il male degli strumenti, dicotomizzando le questioni e dividendo il mondo fra apocalittici e entusiasti. Nessuno strumento di qualsiasi genere, porta in se bene o male. Piuttosto si può essere ispirati o sordi alle opportunità che qualsiasi strumento offre.

    E quindi, gli articoli "sentenzioni" mi fanno uggia. Che mi diano le notizie, i giornali, che mi diano i fatti. Le opinioni, se le tengano per loro. Io mi costruisco le mie, interrogandomi e interrogando la realtà con gli esperimenti.

    E così ho espresso un'opinione ;-)

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  3. Condivido tutta la parte che riguarda la critica agli esperti che non hanno mai vissuto in

    pratica quello su cui pontificano, ma...

    avendo vissuto in prima persona tutte le mode elencate da Simone, compresa quella dei

    computer, non riesco a non condividere almeno la filosofia dell'articolo e prima del libro

    La terza fase.

    E' ovvio che la scuola non si giudica dal numero di computer o di LIM che possiede ma

    dall'uso che ne viene fatto, ovvero la tecnologia può "cambiare tutto pur non cambiando

    nulla".

    Quello che dice Maurizia sulla consapevolezza degli insegnanti è verissimo.
    Una delle competenze digitali valutate dal progetto dell'ANSAS è: La capacità di esplorare

    ambienti (digitali) nuovi.
    Metto tra parentesi la parola digitali perchè la capacità di esplorare ambienti nuovi non

    fa parte della tecnologia ma della cultura che ogni insegnante deve avere.
    L'incapacità degli insegnanti di uscire dal conservatorismo li rende sordi di fronte alle

    potenzialità degli strumenti nuovi. L'insegnante tende ad usarli come ha sempre usato

    quelli vecchi. Un esempio per tutti il libro digitale che per molti di digitale c'è solo il

    supporto.

    Mi rendo conto che anch'io sto pontificando su quella che ritengo una verità assoluta ma

    dopo 25 anni, ho iniziato ad occuparmi di informatica a scuola nel 1985 con i Commodore 64,

    sono molto deluso da quello che vedo in giro...ma forse è solo colpa mia che ho seminato

    male.

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  4. Non credo che il problema stia nel come hai seminato - probabilmente lo hai fatto bene, ma non è questo il punto - penso piuttosto che il problema stia in una cultura che ha creduto di esser tale, ben al di fuori e ben prima del digitale e di tutto il resto. Una cultura sostanzialmente dichiarativa, espositiva, quasi brurocratizzata, verificabile con "prove" relativamente banali: sapere a domanda, sì o no. Una cultura che, quando viene messa duramente alla prova dei fatti, quando cioè non è più "protetta" da un sistema statico di categorie, classi e conseguenti protezioni e privilegi, perché il mondo incalza impetuoso e travolgente, allora essa si rivela in tutta la sua inadeguatezza rispetto all'incerto, mutevole e complesso di tale mondo. Una cultura del genere non può essere in grado di metabolizzare proficuamente il nuovo, che arriva perfonde la società, a prescindere da tutto. L'esperimento di inserire elementi di, come potrei dire, "propensione alla lettura di frammenti di codice" è rivelatore in tal senso. Persone capaci, positivamente propense e acculturate possono durare una grande fatica ad affrontare il nuovo, che non è studiare una cosa nuova, bensì affrontare una cosa nuova, affrontare l'inusuale e l'incerto. Quella cultura ha preparato impiegati, magari di altissimi livello, ma impiegati, non persone pronte ad affrontare nuove sfide.

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